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«Abbiamo imparato entrambi che per vivere insieme dobbiamo dirci molto meno di quanto ci nascondiamo».
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In previsione dell'uscita di Lacci nelle sale il 1° ottobre, ho recuperato il libriccino di Starnone da cui è stato tratto il film. Scrivendo mi rendo conto che è difficile parlarne perché è tanto piccolo quanto denso e pieno di spunti di riflessione (continuo a pensare che i manuali di psicologia che si studiano all'università siano da integrare con la lettura di romanzi: se avessi dovuto proporne uno per l'esame che più mi è piaciuto della magistrale - Normalità e patologia nelle relazioni familiari - avrei scelto questo).
Anche solo il titolo si presta ad un discorso ampio: i lacci sono metafora del legame che unisce i protagonisti - un legame che, più che connettere, stringe in una morsa cui sembra impossibile sottrarsi; allo stesso tempo i lacci fanno riferimento ad un episodio concreto, descritto nel testo come qualcosa che consente ai membri della famiglia di identificarsi, di riconoscersi come parte di qualcosa.
L'altro giorno vi ho chiesto cosa, secondo voi, tiene in vita una relazione dopo tanto tempo e mi avete menzionato un sacco di cose diverse, tutte condivisibili. Ci ho riflettutto parecchio e sono arrivata alla conclusione che tutte hanno a che fare con il costruire insieme, col sentirsi parte di qualcosa che ciascuno contribuisce attivamente a tenere in piedi. Per fare ciò sono necessarie tutte le cose che mi avete scritto: stima, dialogo, ascolto, intimità, rispetto delle differenze, parità, condivisione di obiettivi e tanto altro ancora. È in questo modo che si costruisce, insieme.
Vanda, Aldo, Sandro e Anna non costruiscono, distruggono. Nonostante la stretta del legame familiare che li unisce, sono come rette che viaggiano in parallelo, non si sentono una famiglia. E così i lacci, più che appiglio salvifico, diventano strumento di tortura e rivendicazione.