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Il mio amore per Jeanette Winterson è sbocciato un'estate di due anni fa, per puro caso. Mi aggiravo tra gli scaffali di una libreria di Pesaro in cerca di libri usati e mi è capitato tra le mani Simmetrie amorose. Raramente acquisto libri d'impulso, a scatola chiusa; quel giorno è stato fortunata eccezione. Ancora non mi spiego cosa mi abbia attratta all'inizio: la copertina era orrenda, la trama incomprensibile, conoscevo la scrittrice solo di nome. Un mistero, insomma.
Leggerlo è stato come riconoscermi, vedermi scritta dalla penna (stupenda) di Jeannette, legarmi alle parole di una donna, che -ne ero convita- sgorgavano da ferite simili alle mie. Avevo letto un solo suo libro e già sapevo che non l'avrei più lasciata.
C'è stata una lunga pausa -circa due anni- poi sono tornata tra le sue pagine, quelle della sua autobiografia. Ho letto della sua difficile infanzia di bambina adottata, tra una madre coercitiva, fanatica religiosa e un padre remissivo, indifferente; della sua adolescenza di ribellione e resistenza, dei libri proibiti che le hanno salvato la vita, della sua fuga da casa a soli sedici anni; della sua omosessualità, delle idee femministe, del suo successo letterario in età adulta che è stato ferma ambizione, fiera determinazione e, infine, riscatto di una vita. Senza sorpresa, ho scoperto che ci separano 35 anni quasi esatti -io nata il 26 agosto, il 27 lei. Ho unito i puntini che ci legano -esperienze, manie, modo di ragionare, di amare, di guardare il mondo e vivere la vita- ed è uscito un disegno complesso, ma in cui mi sento accolta, capita, riconosciuta. Non sa nemmeno che esisto, eppure mi parla e parla di me come se mi conoscesse da sempre.
Per questo le sono, e le sarò sempre, infinitamente grata.