Quando, nel dicembre del 1993, il Metropolitan Museum di New York organizzò la prima grande esposizione delle sue opere, Lucian Freud - nipote del celebre Sigmund - non era più che un pittore di nicchia, lasciato indietro dalle avanguardie e a lungo trascurato dalla critica. Per lui, ultimo artista bohémien, amante insaziabile dall'esistenza sensuale e disordinata nonché giocatore d'azzardo perseguitato dai debiti, in quell'occasione si aprirono finalmente le porte del mercato internazionale dell'arte. Da quel momento i suoi quadri, da sempre considerati scioccanti, pericolosi e inquietanti, furono battuti alle aste per cifre da capogiro, e Freud venne celebrato come il più grande pittore figurativo del Novecento. Eppure, nonostante la fama e la ricchezza, Lucian Freud continuava a vivere circondato da un alone di riservatezza, una riservatezza ossessivamente ricercata, difesa, addirittura imposta a tutti coloro che lo frequentavano o posavano davanti alle sue tele. Di lui erano note le innumerevoli amanti, le amicizie nel mondo dell'aristocrazia e dell'élite intellettuale britannica, la passione per il gioco. Così com'erano noti i tanti figli (quelli riconosciuti, almeno). C'era però un Freud «segreto», un «Mefistofele paranoico che distrugge tutto ciò che lo circonda», secondo le parole dell'ex moglie Caroline Blackwood; un artista, ma soprattutto un uomo, tormentato, che aveva dialogato a lungo con la morte e che nel rischio, nel continuo corteggiamento del pericolo, nel disprezzo della morale convenzionale, nell'indifferenza al dolore causato agli altri, nell'arte interpretata sempre come «esercizio estremo» cercava di soddisfare la sua disperata brama di vivere: un atto di riconoscenza, in fondo, per essere scampato, insieme alla famiglia, all'Olocausto cui era condannato in quanto ebreo nella Germania nazista. Questo Freud «segreto» viene svelato per la prima volta da Geordie Greig, che per dieci anni ha fatto parte del ristrettissimo gruppo di amici che regolarmente si incontravano con l'artista per la prima colazione al ristorante Clarke's, in Kensington Church Street, a Londra. Lì, davanti alle tazze di tè e ai giornali del mattino, Freud rievocava episodi del suo passato e parlava di bookmaker e fantini, di gangster dell'East End e di figli troppo spesso dimenticati, di amori distruttivi e di incontri incredibili (da Francis Bacon a Frank Auerbach, da Greta Garbo a Kate Moss). Ma soprattutto parlava d'arte e di pittura, rivelando la sua ossessione per il lavoro, l'attenzione maniacale con cui ritraeva, in maniera a tratti sconcertante, la carne nuda e viva dei corpi che animano le sue tele, arrivando ogni volta a forzare i limiti artistici e morali dell'atto creativo. Una sfida al mondo, la sua, e non solo a quello dell'arte del XX secolo. Libro caleidoscopico, basato su lunghe conversazioni con gli amici, i figli e i conoscenti più stretti di Freud, Colazione con Lucian Freud è un ritratto intimo dell'artista da giovane e nella vecchiaia, un racconto affascinante, personale e autorevole su uno dei protagonisti indiscussi dell'arte contemporanea.
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