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La fuga del tempo e il destino dell'uomo medio
Nel 1928 Buzzati inizia a lavorare ne Il Corriere della Sera, ci rimarrà per tutta la vita. Nei primi anni sperimenta la fuga del tempo. Lui vive e sperimenta la routine, una “ripetitività che svuota e spegne sogni e speranze”, e nell'immobilità dell'attesa gli viene in mente la storia di questo libro. “Sente il bisogno di testimoniare in diretta quella vita sospesa sul nulla che lo sta consumando”, avendo lui l'ambizione di “scrivere qualche capolavoro”, egli trova la sua occasione.
Ma non è solo uno specchio autobiografico, è un monito, un avvertimento. Egli incorpora nella sua storia l'atmosfera quasi irreale di immobilità temporale, uno scandirsi non tanto di anni, ma di fantasticherie giovanili e speranze vane che rendono accettabile l'attesa, il conforto e il torpore delle abitudini e infine la crudeltà del tempo che va avanti, sbarrando la strada dietro di lui, condannandolo ad andare avanti, sempre più solo, verso la sconfitta.
La chiusa della vita di Drogo, il protagonista, è accettata con mestizia, una fine quasi beffarda, che però si accoglie con dignità, accettando silenziosamente il proprio vissuto e accettando una propria realizzazione, nonostante i rimpianti.
Dal 1940, data di pubblicazione di questo libro, per Buzzati continua la sua vita di successi letterari e morirà nel 1972. La sua vita e quella di Drogo, in un certo senso, rappresentano un po' il dilemma che secondo me è lasciato all'uomo medio, al lettore, che potrebbe trovarsi a scegliere se: continuare la propria stagnazione, in attesa dell'arrivo dei Tartari, oppure prendere un altro percorso accantonando i sogni, che alla fine, potrebbe concretizzarsi in un nulla di fatto.
Comunque ci è riuscito eh, Buzzati dico, a scrivere un capolavoro.