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3.5
Sarò sincera: ho fatto fatica, talmente tanta fatica che mi sono sorpresa quando a fine lettura ho realizzato che le vicende narrate si svolgono in un arco temporale di ventiquattro ore, poco più.
Szabó non ha una scrittura semplice e la costruzione del romanzo non aiuta certo le cose: più voci e lunghi flashback che si alternano a repentini salti in avanti nel presente vengono usati per rendere visibile il fitto intreccio di vite raccontato qui dentro. È come tenere in mano il capo di un filo di cui non si vede la fine, tentare di arrotolarlo e scoprire che è parte di una matassa aggrovigliata, piena di nodi, strappi, rattoppi e tutto il resto.
Le storie familiari mi hanno sempre fatto paura; troppi nomi da tenere a mente (per non parlare dei soprannomi - feticismo non solo russo, a quanto pare), troppi eventi importanti a cui far caso perché sono la miccia di altri accadimenti che esploderanno di lì a poco, etc. Qui di famiglie ce ne sono ben due, per un totale di ventitré personaggi e tredici nomignoli; eppure ho coraggiosamente affrontato la lettura. E quanto fascino in tutta questa ragnatela di relazioni!
La svolta è arrivata a pagina 104, al capitolo che porta il nome di quello che sarebbe poi diventato il mio personaggio preferito: ‘Gyozo'. Qui mi è diventato chiaro che la scrittura complicata e la narrazione frammentaria che contraddistinguono la prosa dell'autrice non fanno altro che tentare di riprodurre il modo in cui pensano i protagonisti, il modo in cui tutti pensiamo, saltando continuamente di palo in frasca in un susseguirsi di associazioni mentali che noi stessi non saremmo in grado di spiegare.
Da qui mi sono semplicemente lasciata trasportare fino all'ultima riga, in un crescendo di emozioni che hanno (quasi) completamente cancellato la fatica delle prime cento pagine.