«C'era una volta un re, e questo re incaricò il suo mago prediletto di fabbricare uno specchio magico. Questo specchio non ti mostrava il tuo riflesso. Ti mostrava la tua anima - ti mostrava chi eri realmente». E il campo di concentramento è quello specchio. Nella zona d'interesse del campo, Golo Thomsen, nazista mediocre, riscopre un sentimento che pareva impossibile in quel luogo e in quel tempo. S'innamora di Hannah Doll, una donna sposata, che come lui sta scrutando lo specchio per capire chi è. Ma c'è un problema: Hannah è la moglie del Comandante: il cinico, spietato, grottesco Paul Doll.
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Premessa: l'idea di focalizzare la storia sui nazisti, quelli do ogni giorno, quelli che vivono la follia della propria esistenza come la normalità che è per loro, è geniale e raramente sfruttata in un romanzo. Raramente si ha il coraggio di far parlare i personaggi del lato oscuro della nostra Storia recente. I lager, le torture, le deportazioni, cose che avvengono letteralmente sotto i loro occhi, sono viste o con un sereno e mostruoso distacco o come parte della vita del Reich. Sia come sia, non sono il male. Sono persone che si chiedono perché gli ebrei ce l'hanno con l'oro, perché sia la Germania la vittima di questo odio guidato dagli ebrei. E ne parlano con l'assoluta, aberrante innocenza di chi ha perso il contatto con la realtà, di chi si è gettato nel malefico incantesimo del nazismo.
Non posso però dare un voto pieno, perché, pur nel suo lodevole intento, l'autore ha esagerato. I dialoghi si dilungano, si dilungano, si dilungano ed entrano a far parte di un quadro astratto da cui, ad un certo punto, è il lettore stesso a distaccarsi. Martin Amis non ha avuto il coraggio di dipingere fino in fondo la banalità del male, ma ha reso i suoi personaggi quasi dei filosofi del male, e non si riesce più a seguirli bene.
Anche la parte finale è stata moooolto allungata, anzi, oserei dire non necessaria. Se si fosse fermato a ‘postumi', sarebbe stato meglio.